Articolo e foto tratti da Panorama.it
Le biciclette usate da lui. I suoi gregari. Persino il chiosco di piadine della madre. Quasi tutto autentico, salvo l'assoluta verità negata dal regista Bonivento. Partigiano per passione
Lo storico campione Felice Gimondi, che interpreta se stesso nella fiction: premia Pantani al Giro di Francia. Difficile distinguere il fotogramma dalla foto reale (che è quella a destra)
«Perché vai più forte in salita anche quando non serve?» gli domanda l'amico. «Per abbreviare la mia agonia» risponde lui non sapendo o forse sapendo che quella è la sua epigrafe.
È già vecchio di tre anni lo scandalo del ragazzo con le orecchie a sventola trovato morto, sfinito a morte, dentro un lenzuolo e un paio di jeans in una camera d'albergo di Rimini.
La fiction prodotta da Bibi Ballandi, regia di Claudio Bonivento, in onda lunedì 5 febbraio su Raiuno, 100 minuti tratti dalla biografia Pantani, un eroe tragico di Davide Cassani, Pier Bergonzi e Ivan Zazzaroni (Mondadori), ti costringe a ripensarlo quello scandalo, lontani dall'orgia del pettegolezzo, le centinaia d'imbonitori, comici, soubrette, tutti condannati allora a straparlare di ciò che per definizione non sanno, il dolore, la solitudine, il male oscuro, a scomodare Luigi Tenco e Cesare Pavese.
Quando era invece la storia di un ragazzo semplice, che di lavoro scalava e spaccava montagne, e tutti gli dicevano che era un gigante, non importa se vestito di giallo o di rosa; importa che lui ci credeva, come ha creduto al dolore che lo ha ucciso giorno dopo giorno.
Perché la non detta grandiosità di Marco Pantani, il suo Izoard, la sua immane salita, che si ritrova a scalare solo, nudo e calvo, strano pirata senza benda e senza bandana, è nel suo anacronismo.
Un ragazzo che si fa carico di una colpa che non sente e la trasforma in un castigo definitivo, più feroce di qualunque castigo divino o terreno. L'impresa d'altri tempi di una disperazione inconsolabile e insostenibile, in un mondo dove i colpevoli di etica infranta pontificano in tv.
Una scena di Pantani, un eroe tragico, fiction in onda su Raiuno il 5 febbraio, interpretata da Rolando Ravello, quasi il sosia del ciclista romagnolo
Giusto partire dalla scena madre. Il giorno in cui Pantani ha cominciato a morire. Quel 5 giugno del 1999. La salita di Madonna di Campiglio, la voce di Adriano Dezan, la Voce, quella maglia rosa a due giorni dalla vittoria del Giro, la seconda consecutiva, i vampiri dell'antidoping che bussano alla porta.
«Quella norma ipocrita del 50 per cento sull'ematocrito, per cui il messaggio era fatevi pure di epo, purché non superiate quella soglia. Pantani voleva solo combattere alla pari degli altri» dice Bonivento, che ammette la sua faziosità, tutto schierato dalla parte del Pirata, del ragazzo umiliato e offeso.
«Pantani aveva all'epoca sette procedimenti penali, contro i quattro di Totò Riina. La conferma che il sistema protegge certi campioni, altri no. Basti pensare al lavacro per gli eroi discussi del calcio, dopo la vittoria mondiale».
«Mi sono sempre rialzato, ma stavolta non ce la farò». Marco spacca un vetro della finestra invece dello specchio, ma solo perché su qualunque set la scaramanzia conta. «Sembra che mi stiano arrestando. Vogliono far credere che il Pirata è un pezzo di merda» dice Pantani mentre si riguarda la mattina dopo in tv ed è già un'anima in pena.
Fra i meriti di Bonivento, straripante viveur lanciato da sempre in ogni direzione, produttore di film campioni d'incasso come Mery per sempre e i primi Vanzina, dal Diego Abatantuono primordiale a Sapore di mare, regista dell'ultimo Grande Torino, con cui ha vinto ogni premio televisivo, la scelta degli attori. Rolando Ravello, scoperto da Ettore Scola, una rivelazione nella parte di Pantani.
Un calvo naturale che non esita a violentarsi correndo per tre mesi 100 chilometri al giorno per un risultato mimetico eccezionale (scommettete forte e vincete: quello che scatta sull'Alpe d'Huez è lui o l'originale?) ma capace, questo conta, di somigliare al mondo interiore di Pantani.
E poi Omero Antonutti, Ivano Marescotti, la sorprendente Nicoletta Romanoff nella parte di Cristina, la fidanzatina danese, e Gianfelice, il figlio di Giacinto Facchetti, amico del cuore e gregario di Pantani, e non puoi non pensare a quanto il padre sarebbe stato orgoglioso di lui.
Cura maniacale del dettaglio. Sono vere le biciclette di Pantani, vera la sua Harley Davidson, vero il chiosco di piadine della madre Tonina, autentici i gregari, le feste con gli amici travestiti da pirati, il rito di radersi il cranio con il rasoio. Impressiona Marco Rossi, il Pantani bambino, uguale alle foto dell'originale.
È nonno Sotero che lo spinge al ciclismo: «Fa' la cosa che ti viene più facile». Diventerà il suo mantra, nel bene e nel male.
Veniale cedimento al pubblico di Raiuno l'enfatizzazione della storia con Cristina, un amore di luci e ombre, ma qui si vedono solo luci, e quando lei sparisce risulta una crudeltà improvvisa. Il colpo di grazia per Marco. «Non te ne andare... Ce la farò, vedrai, batterò Armstrong». E lei: «Chi se ne frega di Armstrong... io ho paura». Pantani risalirà in bici, batterà Lance Armstrong sul Ventoux, l'ultima illusione di cancellare pedalando i suoi incubi.
In queste pagine sono state abbinate le immagini di Marco Pantani con quelle del lavoro tv. Il ciclista è morto il 14 febbraio 2004 per una overdose di cocaina.
Non è facile dare corpo a un incubo. Sono bravi Bonivento e Ravello. E credibili. Al primo adescamento dell'amico losco Pantani non cede. «I miei problemi li ho avuti e li ho risolti da solo... Tutte quelle cose, la fica, la fama, le vittorie le ho già... Va' a cacare». L'intervista a Gianni Minà, il vero Minà, in cui affiora l'ipotesi del complotto cinico e baro («Era l'anno delle prime scommesse sul ciclismo»). E poi il pozzo. Non ha fondo il pozzo di Pantani. La mania di persecuzione, smette di pedalare, di mangiare, di amare. Non risponde più agli amici.
«Quella sostanza», così la chiamava, lo faceva sentire invulnerabile, capace di dominare il mondo ora che gli era ostile. «Sono stato umiliato» ripete all'amico che lo scova nel bagno di una camera del Grand Hotel a Rimini. «Mi hanno lasciato solo come un cane», e splendida più che mai risulta Gli angeli di Vasco.
Farà discutere la scelta di Bonivento di non mostrare gli ultimi giorni, quelli dell'abbrutimento fisico e morale.
Stare dalla parte di Pantani significa anche raccontarlo nei giorni in cui il castigo che si è inflitto diventa abisso e testamento. Le urla sconnesse scritte sul passaporto.